martedì 23 novembre 2010

VIENI VIA CON ME

A "Vieni via con me" il mio elenco dei bei ricordi di Stefano:


1) Il suo sorriso, quando da bambino correva incontro a nostro padre di ritorno dal lavoro.


2) La sua dolcezza, quando non riuscivo a dormire perché avevo paura del buio e lui mi rassicurava.


3) La sua allegria contagiosa, che ti tirava su di morale e riusciva sempre a strapparti un sorriso.


4) La sua simpatia, che lo faceva essere amico di tutti e fare invidia a me, che ero sempre troppo timida.


5) La sua generosità, nell'aiutare sempre gli altri come poteva, anche quando era lui ad aver bisogno di aiuto.


6) La sua tenerezza, quando giocava con i miei figli e non doveva fingere di essere diverso o migliore.


7) Il suo altruismo, quando anche nei momenti più difficili per lui si preoccupava che io fossi serena.


8) Il suo abbraccio, forte, che racchiudeva tutte le parole che dalle nostre bocche non riuscivano ad uscire.


9) Il suo bisogno di famiglia, che lo portava a cercare tutte le occasioni per stare insieme, ricordare, festeggiare.


10) La sua voglia di farcela, quando con le lacrime agli occhi ma con orgoglio tornava in comunità e provava a riprendersi la sua vita.


11) Il suo amore, grande per la vita... che non avrebbe mai voluto lasciar andare.


... nel mio cuore però l'elenco conteneva un altro punto:


12) La sua gratitudine, che se Stefano fosse ancora qui sarebbe grande come la mia, a Patrizia Moretti. Se non fosse per Federico, per il coraggio della sua mamma e per il suo esempio, oggi non sarei qui a parlare di mio fratello.



domenica 21 novembre 2010

Gianfranco Fini
15/11/2010
Montecitorio, Sala del Mappamondo - Presentazione del libro "Vorrei dirti che non eri solo" di Ilaria Cucchi con Giovanni Bianconi

http://www.abuondiritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=372:qvorrei-dirti-che-non-eri-soloq-presentazione-alla-camera-dei-deputati-15-novembre-2010-&catid=37:rassegna-stampa&Itemid=71

Autorità, Signore e Signori!

La Camera dei deputati è lieta di ospitare la presentazione del libro 'Vorrei dirti che non eri solo' scritto da Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi, che saluto.

Un cordiale benvenuto agli autorevoli ospiti che interverranno: il sen. Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A Buon Diritto', ed Ezio Mauro, direttore del quotidiano ' La Repubblica '.

Prima di entrare nel merito della dolorosa vicenda di Stefano, voglio esprimere innanzitutto la mia umana vicinanza ai genitori - la signora Rita e il signor Giovanni - così profondamente colpiti da una tragedia che ha distrutto le loro vite e che ha scosso e commosso l'Italia intera.

Ed è proprio questo complesso insieme di fatti, sentimenti e sensazioni - nel quale la vicenda famigliare si è intrecciata a quella pubblica coinvolgendo uomini e Istituzioni - è proprio questa complessità, dicevo, che rende difficile parlare del 'caso Cucchi' senza rischiare di ferire ancora una volta la sua memoria e la sua famiglia, la fiducia dei cittadini verso le strutture dello Stato.

Quello di Stefano Cucchi, infatti, è un caso che, nel suo svilupparsi, passa da una dimensione privata a una dimensione pubblica, sociale. La sua storia, tra l'altro, ha messo in luce anche l'irrisolta questione del sovraffollamento del sistema carcerario italiano e delle drammatiche condizioni in cui vivono i detenuti: argomento sul quale il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto con forza. Né si può sottacere, con amara constatazione, che, quello relativo ai diritti dei detenuti, è un problema che riguarda non soltanto l'Italia, che sconta peraltro una pesante penuria di organico impegnato nelle carceri.

Quella di Stefano è innanzitutto una storia di diritti negati che si è consumata in appena una settimana.

Stefano è morto perché chi avrebbe potuto e dovuto garantire l'assistenza sanitaria evidentemente non lo ha fatto, come emerge dalla lettura della relazione svolta dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul sistema sanitario nazionale, presieduta dal sen. Ignazio Marino.

Leggendo le pagine del libro ripercorriamo la vicenda di Stefano, che soffriva e si debilitava in completa solitudine. Nessuno infatti ha provveduto ad avvisare il suo avvocato - come pure lui aveva richiesto - né ad avvisare i suoi genitori di cui riviviamo l'angoscia mentre si scontravano contro il muro di gomma di risposte negative, dilatorie ed evasive. Il dubbio terribile che agita le nostre coscienze è che, talvolta, chi rappresenta lo Stato non metta in atto nei confronti dei detenuti quei sistemi di garanzia che costituiscono un elemento fondamentale di ogni democrazia. Dobbiamo ricordare che il detenuto è per prima cosa un uomo.

Concordo con il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che a suo tempo affermò: «Si doveva evitare che Stefano Cucchi morisse. Uno Stato democratico assicura alla giustizia e può privare della libertà chi delinque. Ma nessuno può essere privato del diritto alla salute».

Personalmente ritengo che chiunque, italiano o straniero, si trovi a essere in custodia dello Stato debba poter contare con certezza che i suoi diritti siano pienamente tutelati. Per questo, le fotografie di Stefano, diffuse dalla famiglia non senza molti travagli interiori, ci devono indurre a una dolorosa riflessione.

È bene precisare che Stefano non è morto perché era tossicodipendente. Il processo in corso stabilirà come sono andati i fatti e accerterà le responsabilità e dobbiamo confidare nella magistratura per ristabilire la giustizia e per evitare che vi possano essere delle macchie che infanghino i leali servitori dello Stato - la stragrande maggioranza - ai quali deve andare tutta la nostra gratitudine per il quotidiano impegno nella lotta alla criminalità, nella tutela dell'ordine pubblico e per la custodia, la cura e l'assistenza ai detenuti.

Ma ci sono anche altri aspetti che desidero sottolineare. Credo che le Istituzioni democratiche debbano essere sempre permeate da un forte senso di umanità che non può, in nessuna circostanza, venir meno. Da questo punto di vista, reputo inaccettabile, indegno di un Paese civile, che nessuno abbia ancora fatto ammenda per quella tragica notifica con la quale la mamma di Stefano apprese, solo incidentalmente, della morte del figlio mentre la stavano informando della volontà di procedere all'autopsia. È agghiacciante pensare che nessuno avvisò i famigliari dell'avvenuto decesso del giovane in modo adeguato, rispettoso del dramma dei genitori e della dignità di Stefano.

Non è questa l'unica parte del libro che mi ha dato la sensazione che un pericoloso processo di estraniazione emotiva stia minando la società, distruggendo un comune senso di appartenenza.

Un'atonia morale che si trasforma in egoismo e indifferenza verso gli altri, la loro dignità, la loro stessa esistenza.

È forse per questo che Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi non hanno raccontato 'solo' la via crucis di Stefano in carcere - di via crucis parlò in occasione del trigesimo il vescovo ausiliario di Roma monsignor Giuseppe Marciante - ma hanno voluto ripercorrere la storia della famiglia Cucchi, la storia di questi due fratelli - Ilaria e Stefano - seguendo anche le gioie della loro infanzia, i turbamenti dell'adolescenza, le scelte dell'età adulta.

Una sequenza di ritratti famigliari che non è casuale, né risponde a esigenze editoriali. Intervallare le vicende drammatiche con i flashback della normale vita famigliare significa umanizzare una tragedia che nel suo inizio, nel suo svolgimento e nel suo epilogo di umano ha avuto davvero ben poco, offendendo in noi quel sentimento di pietas che deve appartenere all'uomo ed è uno dei fondamenti indispensabili del vivere civile.

Il libro, tuttavia, è un libro che trasmette una speranza. Ilaria ha sin dall'inizio capito che per recuperare e restituire fiducia nelle Istituzioni era necessario ingaggiare una battaglia di verità. Affiancata dall'avv. Fabio Anselmo, che ha seguito anche i casi Aldrovandi e Uva, Ilaria ha compreso che soltanto superando quella iniziale ritrosia di fronte alle telecamere tipica delle persone normali avrebbe potuto combattere la guerra di 'Davide contro Golia'.

Ci è riuscita anche in virtù della sensibilità di alcuni parlamentari di tutte le forze politiche che le sono stati vicino sin dall'inizio. Soltanto grazie a questo impegno di Ilaria la battaglia per avere pace e restituire pace alla memoria di Stefano si è trasformata in un atto di fiducia nella giustizia e nella verità.

Perché senza giustizia non c'è libertà, né democrazia, la cui forza sta proprio nella capacità di riconoscere le proprie zone d'ombra e di illuminarle.

Ilaria, subito dopo la tragedia, fu anche tentata dall'idea di lasciare l'Italia: «Se questo è il Paese dove dovranno crescere i miei figli - diceva - meglio partire e costruire un futuro altrove».

Ma oggi Ilaria è qui con noi perché ha deciso di rimanere, non per cercare vendette ma risposte e decisioni che restituiscano dignità a Stefano e con lui a tutti noi.

Per questo le diciamo: grazie Ilaria per aver deciso di restare.

martedì 2 novembre 2010

L’odissea kafkiana di Stefano Cucchi e un’indagine patchwork

Capire la vicenda kafkiana occorsa a Stefano Cucchi, morto un anno fa nel reparto protetto dell’ospedale Pertini, dopo un arresto per droga, non è impresa facile. Troppi i protagonisti di questa storia: ben tre istituzioni pubbliche come l’Arma dei carabinieri, l’amministrazione penitenziaria e il sistema sanitario. Però, tra chi ha avuto a che vedere con Cucchi in quei giorni, a diverso titolo, fa salire il numero a ben oltre i tredici indagati dalla procura di Roma. La sua “odissea”, al contrario di tragedie analoghe come quella di Federico Aldrovandi, ad esempio, non si è esaurita in un unico episodio e cioè, fermo-botte-decesso. Cucchi è stato custodito per poco più di sei giorni dalle mani dello Stato, passando per fasi diverse, in un crescendo di tragedia che l’indagine della procura di Roma, nelle persone dei pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, ha spiegato in questo modo: Stefano è stato picchiato da tre agenti penitenziari nelle celle del Tribunale in attesa del processo. Poi, all’ospedale Pertini è stato “abbandonato” dai medici che non hanno fatto il necessario per salvarlo quando ormai era evidente che fosse in pericolo di vita. Tutta la vicenda, però, è costellata da uno straordinario numero di errori, casualità, coincidenze su cui un giallista, portato a mettere in relazione i fatti e cercando di ricostruire un quadro accettabile almeno da un punto di vista logico, avrebbe trovato materiale interessante di riflessione. Ci aiuteremo con un elenco di fatti emersi dalle carte dell’indagine, certamente incompleto ma sufficiente a fare emergere alcune domande.

-Al momento dell’arresto, il verbale dei carabinieri riporta erroneamente che Cucchi era senza fissa dimora e che non aveva un avvocato di fiducia. Eppure, nell’apposita casella il nome del legale di famiglia viene scritto con esattezza. Questo vuol dire che qualcuno, ai militari, doveva pur averlo detto. Inoltre, che fosse senza fissa dimora risultava anche nelle carte dell’udienza preliminare, ragion per cui al giovane, che era poco più che un incensurato e a cui erano stati trovati addosso pochi grammi di hashish, furono negati gli arresti domiciliari. Contro di lui c’era anche l’accusa di spaccio firmata in caserma da un suo amico che poi, davanti al pm, disse di essere stato costretto dai carabinieri a firmare quell’accusa.

-Stefano Cucchi, dopo l’arresto e dopo la perquisizione notturna nella casa dei genitori (pur essendo, nelle carte, senza fissa dimora) viene riportato in caserma in via del Calice intorno alle 2, come affermato dal maggiore Unali, responsabile della Compagnia Casilina. Nelle celle della caserma di via degli Armenti, dove passerà il resto della notte, giungerà alle 4: un tempo decisamente lungo per trovare il luogo di pernottamento (le celle di via del Calice erano inagibili), visto che in quelle ore i carabinieri non erano impegnati in altra attività perché Stefano era l’unico presente in caserma, oltre ai militari.

-Nella notte, in via degli Armenti, si sente male intorno alle 5. Viene chiamato il 118 ma lui non si fa visitare. Nella penombra della cella, però, l’infermiere Ponzo dichiara di aver intravisto “un’ecchimosi alla regione zigomatica destra”, non molto diversa da quella visibile ore dopo nella foto fatta alla matricola del carcere di Regina Coeli.

-Al momento dell’accompagnamento alle celle della caserma di via degli Armenti, il carabiniere Gianluca Colicchio nota alcuni arrossamenti sul viso di Stefano e, interrogato successivamente dai pm, raccontò che al momento dell’ispezione Stefano mostrò la sua cinta rotta. “Che mi devo togliere la cinta che m’hanno rotto?”, chiese al carabiniere. Il militare disse di non aver chiesto al ragazzo il motivo della rottura di quella cinta dei pantaloni.

-La mattina dopo Cucchi doveva essere trasferito in tribunale. Il carabiniere Francesco Di Sano della caserma di via degli Armenti dichiarava ai giudici che Cucchi lamentava dolori al costato e di non poter camminare, tanto che Di Sano lo aiutò a salire le scale (le celle si trovano in fondo ad una scalinata ripida). Perché non poteva salire le scale da solo? Cucchi aveva da poco compiuto 31 anni, era giovane e, nonostante la magrezza e l’uso di stupefacenti, frequentava una palestra dove si era recato proprio poche ore prima dell’arresto come, secondo la sua famiglia, sarebbe attestato da un badge con orario di entrata.

-Il carabiniere Pietro Schirone, che la mattina successiva, con un collega, aveva l’incarico di portare Cucchi all’udienza in tribunale, quando vide il ragazzo notò due ematomi evidenti intorno agli occhi, gli stessi che erano visibili al momento della foto segnalazione in carcere. Circostanza che il militare confermò ai pm. Schirone, giunto con Cucchi in tribunale, incontrò casualmente i suoi colleghi della caserma Appia (quelli che avevano arrestato poche ore prima Stefano) e chiese loro se si fossero resi conto delle condizioni del ragazzo.

-I militari della caserma Appia avevano appena accompagnato due giovani albanesi fermati il giorno prima che raccontarono agli inquirenti di aver parlato con Stefano nei pochi attimi prima del trasferimento nei sotterranei del tribunale. “Chi ti ha picchiato?”, gli chiesero dopo aver visto la sua difficoltà a reggersi in piedi. “I carabinieri ma non quelli che mi hanno portato qui”, rispose Stefano, specificando. Una testimonianza che però non venne considerata valida per l’indagine. Eppure la convergenza di diverse testimonianze, peraltro specifica come quella dei due albanesi, avrebbe meritato un approfondimento.

-Il momento delle eventuali percosse subite da Cucchi viene fatto risalire dalla perizia dei consulenti nominati dalla famiglia tra le 13 e le 14,05 del 16 ottobre. Quindi in tribunale (presumibilmente sotto le celle), subito dopo la sua permanenza in aula. Eppure, il padre di Stefano lo vide in udienza, intorno alle 12, lo abbracciò da vicino e notò un gonfiore anomalo sul volto. Alle 14 circa un medico lo visitò e certificò i segni sul viso e le difficoltà di deambulazione. Ma lui, invece, ha due vertebre rotte, L3 e quarta coccigea come riferito poi dall’ospedale Fatebenefratelli. Un detenuto del Gambia (unico testimone d’accusa), vicino di cella di Stefano al tribunale, dice al pm di aver sentito i rumori del pestaggio nei sotterranei di piazzale Clodio. Cucchi, però, potrebbe essere stato picchiato in due momenti differenti e i colpi ricevuti sul viso non necessariamente potrebbero essere contemporanei a quelli subiti alla schiena, ben più gravi per i quali occorse poi il ricovero d’urgenza.

-Il percorso kafkiano della vicenda di Stefano Cucchi si è incontrato col destino del dottor Rolando Degli Angioli, medico del Regina Coeli che visitò il ragazzo al momento del suo ingresso. Accortosi della gravità della situazione, dispose il ricovero per accertamenti alle 16, 45. Il ragazzo venne portato al Fatebenefratelli, vicino alcune centinaia di metri, circa tre ore dopo. Il medico si arrabbiò per quel ritardo. Pochi mesi dopo, al ritorno da un’aspettativa di lavoro, il dottor Degli Angioli non venne reintegrato. La commissione parlamentare presieduta dal senatore Ignazio Marino, che indagò sul caso Cucchi, dopo aver ascoltato il medico concluse che “era stato mobbizzato”. Lui inviò due lettere di raccomandata ricevuta ritorno per essere riammesso al lavoro. Non ebbe risposta. La versione della dirigenza sanitaria del carcere fu, invece, che dal termine dell’aspettativa, il 7 marzo 2010, il medico non si fece più sentire. La direzione sanitaria sottolineò di essere rammaricata del fatto perché il dottor Degli Angioli lavorava da sei anni nel carcere e si era fatto sempre apprezzare per aver risolto casi sanitari anche complicati. Il medico ha aperto una vertenza di lavoro con l’amministrazione del penitenziario.

-Il capitolo dell’ospedale Pertini è l’ultimo e i medici e gli infermieri, se le accuse della procura saranno confermate, non hanno scampo: Stefano Cucchi è stato abbandonato a sé stesso, le cure sono state inadeguate, fu sottovalutata la gravità della sua condizione clinica. Le loro responsabilità sono molteplici e iniziano quando il medico di turno, la dottoressa Rosa Caponnetti, secondo l’accusa, chiese un’autorizzazione specifica all’amministrazione penitenziaria per ricoverare Cucchi. In carcere le sue condizioni si erano aggravate e l’amministrazione del Regina Coeli aveva scelto quel reparto del Pertini, poco adatto per un paziente affetto da acuzie (anche i consulenti della procura stessa, nella loro relazione, presentarono forti critiche a questa scelta perché quel reparto era inidoneo e non attrezzato per le condizioni di Stefano). Al dirigente dell’amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi, anch’egli indagato, venne fatto firmare un documento palesemente falso in cui Stefano Cucchi veniva descritto in condizione generali “toniche e trofiche”, discretamente alimentato e senza le gravi patologie di cui soffriva (e che in precedenza erano state già certificate dal Fatebenefratelli). Marchiandi, fuori dell’orario d’ufficio (era sabato e pare che il dirigente si trovasse fuori Roma con i familiari) arrivò di corsa al Pertini e firmò (“un procedimento assolutamente fuori dall’ordinario – dirà una delle infermiere ascoltate in procura – in tanti anni di lavoro qui non avevo mai vista tanta urgenza”). I sanitari del Pertini che hanno ricevuto la richiesta di rinvio a giudizio sono nove. Ora, il dubbio è questo: si tratta di persone incensurate, madri e padri di famiglia ed è presumibile credere che fino ad allora fossero sempre stati cittadini rispettosi della legge. Che tutti insieme e contemporaneamente e nello stesso luogo abbiano deciso improvvisamente di delinquere senza pensare alle conseguenze, risulta veramente difficile da credere. Eppure è accaduto. Quel comportamento che si può definire, con un termine benevolo, “sciatteria professionale”, non può avere colpito come una sindrome nove professionisti che fino ad allora avevano lavorato, con tutta probabilità, in maniera regolare. A meno che non ci sia stata una direttiva. Un ordine da qualcosa o da qualcuno allo scopo di segregare lontano da occhi indiscreti Stefano le cui condizioni, piano piano, si stavano aggravando. Così si spiegherebbe la difficoltà di Stefano di vedere il suo avvocato, per cui faceva il diavolo a quattro, un diritto continuamente negato, rifiutando parte del cibo e delle cure, complicandosi così da solo una già complicata situazione clinica. Per non parlare della perizia disposta dalla procura ed effettuata dal professor Arbarello, che non mette in relazione i traumi subiti da Stefano e l’insorgenza di patologie come la bradicardia, una delle concause di morte. Una perizia, però, che non dà spiegazioni sui motivi che scatenarono il mortale scompenso metabolico di Stefano. Perché in sei giorni Stefano soffrì di questo insieme di patologie. Se non c’è un fattore scatenante (il pestaggio subito poche ore prima), allora la bradicardia, la cachessia, i problemi idroelettrolitici riscontrati dall’autopsia potevano colpirlo in qualsiasi momento. Anche in casa, per esempio. La perizia di parte civile, invece, individuò invece in una scheggia della vertebra L3 che pigiò in quei sei giorni sul sacco durale del midollo spinale del ragazzo, la causa della sua innaturale postura, della sua sofferenza e della sua morte. Ma quest’ipotesi non fu accolta dagli investigatori. Potremmo finire qui. Si potrebbero aggiungere altre “stranezze” come l’impossibilità per i periti di parte civile di fotografare, subito dopo la morte, il corpo martoriato di Stefano, ridotto ad una specie di alieno, e che soltanto il gesto caritatevole di qualcuno che quelle foto fece di “straforo” rese possibile quella terribile visione a tutti. Perché anche questo? Nessuna delle riflessioni fatte può rappresentare una prova di colpevolezza o assoluzione per nessuno ma i tasselli dell’indagine rischiano di disegnare un effetto patchwork se non si mettono in relazione i fatti accaduti e i motivi con un esercizio di logica. Alle tante domande di questa vicenda kafkiana, infatti, sembra mancare la parola “perché”.

GIANCARLO CASTELLI