Giustizia: il medico di Regina Coeli che visitò Cucchi da sette mesi è senza lavoro |
Il Manifesto, 3 agosto 2010
Notificò l’estrema gravità del giovane. Da sette mesi ha dovuto inventarsi un’altra vita. E ora l’assessorato al lavoro della Provincia di Roma, dopo un’interrogazione del consigliere di Sel Gianluca Peciola, chiederà alle autorità competenti perché dopo sei anni è stato fatto fuori dai turni di guardia a Regina Coeli. Il caso del dottor Rolando Degli Angioli non è caduto nel dimenticatoio. Anzi, i nodi stanno venendo al pettine. Compresa una strana vicenda: ora risulta indagato per una denuncia che risale al 2008.Fino a ieri di Degli Angioli nessuno aveva mai sentito parlare: era uno dei tanti medici di guardia della casa circondariale romana Regina Coeli. I suoi cartellini testimoniano che per sei anni è stato un medico presente, in misura addirittura superiore alle ore previste dalla convenzione con i medici Sias. Il suo nome comincia a finire sui giornali con la morte di Stefano Cucchi, il trentunenne fermato per alcune dosi di hashish e morto nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre scorso. Degli Angioli è il medico che lo visitò in carcere, ai “nuovi giunti”, e l’unico a definire il suo caso di “estrema urgenza” chiedendone l’immediato ricovero. Ma quella sera comincia una “guerra” contro il dottore, forse considerato troppo puntiglioso: gli agenti di turno gli fanno rapporto. Lo accusano di voler decidere chi entra in carcere e chi no. La vicenda si conclude solo dopo la morte di Stefano, con un encomio a Degli Angioli da parte del direttore del carcere, Mauro Mariani.
Ma per il medico l’incubo continua. Pochi giorni dopo la morte di Cucchi si sposa e parte per l’Australia. Nel relax del viaggio di nozze, riceve un sms da un suo collega: “A piazzale Clodio ce l’hanno con te”. Tornato, scopre che il Nucleo investigativo centrale (Nic) - un corpo creato nel 2007 e composto da agenti penitenziari in forza alla Procura - sta indagando su di lui, anche se non risulta formalmente indagato. Ma ancora più strano è il comportamento dei suoi colleghi: visto che non è certo l’unico pubblico ufficiale di Regina Coeli ad essere incappato in qualche inchiesta, l’ostracismo nei suoi confronti è incredibile. Tutti si cancellano dai turni con lui.
Degli Angioli ha raccontato ai pm che hanno indagato sul caso Cucchi di come il direttore sanitario, Andrea Franceschini, gli consigliò di prolungare l’aspettativa, promettendogli una nuova collocazione. Che non è mai arrivata. Eppure il dottore inviò persino due lettere per chiedere il reintegro. Ai giornali, invece, Franceschini dirà di non averlo più sentito. Una versione che però non può reggere, carte alla mano, quando la Asl dovrà presentarsi di fronte o alla Direzione provinciale del lavoro (a giugno Degli Angioli ha depositato una conciliazione obbligatoria) o successivamente di fronte al giudice.
Il dottore ancora oggi continua a rifiutarsi fermamente di rilasciare dichiarazioni ai giornali. Ma ai pm del caso Cucchi disse di sentirsi messo sotto pressione per la vicenda riguardante Stefano. È ovviamente solo un’ipotesi, ma il clima di lavoro “avvelenato” da quella brutta storia potrebbe aver avuto ripercussioni sull’indagine che ha investito il medico mentre era in viaggio di nozze. L’oggetto dell’inchiesta è emerso solo di recente: Degli Angioli risulta indagato per violenza privata e abuso di autorità contro un detenuto, nonché di falso, per una storia che risale al 2008. Qualcuno forse ricorderà Julien Jean Gerard Monnet, l’uomo che nel luglio di quell’anno in un attacco d’ira (fu giudicato incapace di intendere e di volere, soffriva di gravi problemi psicologici) ridusse in fin di vita la figlia di 5 anni, sbattendole la testa sull’Altare della patria.
Ebbene, Monnet all’epoca denunciò che un medico di Regina Coeli, mentre era legato al letto, gli mise un catetere senza il suo permesso, facendogli molto male, forse per punirlo. Due anni dopo, mentre esplode il caso Cucchi, l’attenzione della Procura e del Nic si concentrano sul dottor Degli Angioli, che a marzo scopre di essere indagato insieme all’infermiere Luigi Di Paolo. Eppure, secondo alcune indiscrezioni, in quelle ore nello stesso reparto risulta di turno un altro medico, mentre Degli Angioli sarebbe stato di guardia in un’altra ala. Inoltre il certificato che ordina la contenzione di Monnet, che nella ricostruzione della Procura viene “accollato” a Degli Angioli, risulterebbe invece firmato dall’altro medico di turno.
A breve il pm che si occupa dell’inchiesta, Francesco Scavo, dovrebbe decidere se chiedere il rinvio a giudizio del medico. In ogni caso l’episodio non è bello, ma neppure così grave. Per Degli Angioli un’altra tegola in testa, del tutto inaspettata, e un ennesimo colpo alla sua immagine professionale. Il danno alla professionalità è una delle richieste contenute nella richiesta di conciliazione a cui la Direzione sanitaria ha tempo tre mesi per rispondere.
cara Ilaria, ti segnalo che il link che hai pubblicato non porta all'articolo che descrivi, forse dovresti controllarlo..
RispondiEliminae poi, vengo per dirti che ho rigirato al tuo blog un premio che a mia volta ho ricevuto.. e spero con tutto il cuore che lo vorrai accettare!
anche se è solo un piccolo premio tra bloggers.. ma è giusto quello che siamo noi, no? e proprio per questo contiamo.
Cara Iaria,
RispondiEliminaho letto questo in un libro (Jean Améry, "Intellettuale a Auschwitz", Torino, Bollati Boringhieri 2002), e ho pensato a Stefano:
"Dal punto di vista criminologico le percosse durante un interrogatorio hanno un significato limitato. Si tratta di una rappresaglia tacitamente praticata e accettata, una normale rappresaglia nei confronti di arrestati ricalcitranti, non disposti a confessare. Se vogliamo prestar fede al succitato avvocato Alec Mellor e al suo libro "La Torture", le percosse vengono praticate in dosi più o meno massicce in quasi tutti gli uffici di polizia, anche dei paesi democratici occidentali, fatta eccezione per l'Inghilterra e il Belgio. In America si parla di "third degree", del terzo grado di un interrogatorio di polizia, durante il quale, a quanto pare, si va ben oltre a un paio di pugni. In Francia per definire le percosse da parte della polizia è stata anche coniata una bella espressione in argot: si parla del "passage à tabac" dei prigionieri.
Ancora nel secondo dopoguerra un alto funzionario della polizia francese in un libro destinato ai suoi subalterni spiegò con grande dovizia di particolari come durante gli interrogatori non fosse possibile rinunciare a pressioni fisiche «nell'ambito della legalità».
L'opinione pubblica di solito non va molto per il sottile, quando attraverso la stampa di tanto in tanto viene a conoscenza di quanto avviene nei commissariati di polizia. Al massimo si arriva a un'interrogazione parlamentare di un qualche deputato di sinistra. Ma poi s'insabbia tutto: non conosco nemmeno un caso di funzionario di polizia reo di avere percosso un detenuto, che non sia stato poi energicamente coperto dai suoi superiori. Se le semplici percosse, che in effetti non sono in nessun caso paragonabili alla tortura vera e propria, non producono quasi mai una vasta eco nell'opinione pubblica, esse sono tuttavia, per chi le subisce, un'esperienza che segna nel profondo; se non temessimo di sprecare sin d'ora le grandi parole diremmo chiaramente che si tratta di una mostruosità. Con la prima percossa il detenuto si rende conto di essere "abbandonato" a sé stesso: essa contiene quindi in nuce tutto ciò che accadrà in seguito. Dopo il primo colpo, la tortura e la morte in cella - eventi dei quali magari sapeva senza tuttavia che questo sapere possedesse vita autentica - sono presentite come possibilità reali, anzi come certezze. Sono autorizzati a darmi un pugno in faccia, avverte la vittima con confusa sorpresa, e con certezza altrettanto indistinta ne deduce: faranno di me ciò che vogliono. Fuori nessuno è informato e nessuno fa nulla per me. Chi volesse correre in mio soccorso, una moglie, una madre, un fratello o un amico, non potrebbe giungere sin qui.
(continua...)
(... continuazione)
RispondiElimina"Non significa molto affermare, come talvolta a livello etico-patetico fanno individui che non sono mai stati percossi, che con il primo colpo il detenuto perderebbe la dignità umana. Devo ammettere che non so cosa esattamente sia la dignità umana. C'è chi pensa di perderla se capita in situazioni in cui non gli è possibile fare il bagno tutti i giorni. Un altro ritiene di perderla quando in un ufficio pubblico è costretto a usare una lingua che non è la sua. Nel primo caso la dignità umana è correlata a un certo comfort fisico, nel secondo alla libertà d'espressione, in un terzo magari alla disponibilità di partner erotici omosessuali. Non so quindi se chi è percosso dalla polizia perda la dignità umana. Sono tuttavia certo che sin dalla prima percossa egli perde qualcosa che forse possiamo definire in via provvisoria la "fiducia nel mondo". Fiducia nel mondo. Vi concorrono fattori di ordine diverso: la fede irrazionale, e non motivabile a livello logico, nel principio di causalità ad esempio, o il confidare altrettanto ciecamente nella validità delle conclusioni induttive. L'elemento più importante della fiducia nel mondo tuttavia - e l'unico rilevante nel nostro contesto - è la certezza che l'altro, sulla scorta di contratti sociali scritti e non, avrà riguardo di me, più precisamente, che egli rispetterà la mia sostanza fisica e quindi anche metafisica. I confini del mio corpo sono i confini del mio Io.
La superficie cutanea mi protegge dal mondo esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io "voglio" sentire. Con la prima percossa, però, questa fiducia nel mondo crolla. L'altro, "contro" il quale nel mondo mi pongo fisicamente e "con" il quale posso essere solo sino a quando lui come confine rispetta la mia superficie cutanea, con il colpo mi impone la sua corporeità. Mi è addosso e così mi annienta. E' come uno stupro, un rapporto sessuale senza l'assenso di uno dei due partner. Certo, se sussiste una sia pur limitata speranza di potersi difendere, s'innesta un meccanismo grazie al quale posso correggere la violazione di confine compiuta dall'altro. Nella legittima difesa mi espando a mia volta, oggettivizzo la mia corporeità, ristabilisco la fiducia nella continuità della mia esistenza. Il contratto sociale ha allora un testo e clausole diverse: occhio per occhio, dente per dente. Si può strutturare la propria esistenza anche in base a questi princìpi. "Non" è possibile farlo quando è l'altro a spaccarti i denti, a tumefarti l'occhio, quando devi subire inerme quell'opposto in cui si è trasformato il tuo simile. Quando non si può sperare di essere soccorsi la sopraffazione fisica da parte dell'altro diviene definitivamente una forma di annientamento dell'esistenza.
La speranza di soccorso, la certezza del soccorso è effettivamente una delle acquisizioni fondamentali dell'essere umano e a quanto pare anche dell'animale; lo hanno spiegato in maniera assai convincente il vecchio Krapotkin, che parlava del «soccorso reciproco in natura», e l'etologo Lorenz. La speranza di soccorso è una componente costitutiva della psiche, al pari della lotta per la sopravvivenza. Abbi pazienza un momento, dice la madre al bambino che piange per il dolore, ti porto subito il biberon caldo, una tazza di tè, non ti lasciamo soffrire! Le prescrivo una medicina, assicura il medico, le farà bene. E le ambulanze della Croce Rossa riescono a raggiungere i feriti anche sul campo di battaglia. In quasi tutte le situazioni di vita il danno fisico viene vissuto insieme alla speranza di soccorso: il primo trova una compensazione nel secondo. Il primo pugno sferratoci dalla polizia invece, contro il quale non può esservi possibilità di difesa e che nessuna mano soccorritrice potrà parare, pone fine a una parte della nostra vita che non potrà mai più essere ridestata."
Un abbraccio e tutta la mia solidarietà.
Maurizio, Firenze
Cara Ilaria,
RispondiEliminati scrivo per esprimere sincera stima verso l'intelligenza e forza d'animo che continuamente dimostri. La tua lucidità e determinazione nonostante la tragedia che è capitata a te e alla tua famiglia è davvero encomiabile.
Succedono tante disgrazie, ogni giorno, e l'assuefazione mi rende spesso indifferente; ma questa vicenda è diversa per me, mi ha toccato nel profondo. Mi capita spesso di pensare a quelle foto di Stefano, alle tue parole e al modo straordinariamente coraggioso con cui stai conducendo questa battaglia. Tuo fratello sarebbe sicuramente orgoglioso di te.
Spero davvero che tutti i responsabili vengano fuori. Sarà dura, ma non devi smettere mai di crederci!
Ti abbraccio con affetto.
Marco
Il link che hai postato non mostra l'articolo di cui parli.
RispondiEliminaProva a reinserirlo.
Non mollare la presa.
nO$
Ciao Ilaria
RispondiEliminasono Mauro, uno degli amici di Federico qui a Roma.
Il 25 ottobre (lunedì) ci sarà qui a Roma la presentazione del libro "Aldro" di Francesca Boari.
Fammi sapere se potresti essere dei nostri .
La mia mail è mauro.corradini.aldrovandi@gmail.com
a me non sembri così coraggiosa ! Dopo le prime apparizioni in tv sembri tanto diversa dalla ragazza bruttina che difendeva suo fratello ! Ma come mai proprio alui con tanti ragazzi nelle sue condizioni è successo questo? Forse aveva più bisogno degli altri ad avere una famiglia vicino !
RispondiEliminaè vero oggi sembra una velina :tutto trucchi e orpelli : per andare adifendere suo fratello da quel verme di Fazio ! Ma lo sapete come vivono i ragazzi detenuti? No e allora vergognatevi per chi non ha voce !
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