martedì 2 novembre 2010

L’odissea kafkiana di Stefano Cucchi e un’indagine patchwork

Capire la vicenda kafkiana occorsa a Stefano Cucchi, morto un anno fa nel reparto protetto dell’ospedale Pertini, dopo un arresto per droga, non è impresa facile. Troppi i protagonisti di questa storia: ben tre istituzioni pubbliche come l’Arma dei carabinieri, l’amministrazione penitenziaria e il sistema sanitario. Però, tra chi ha avuto a che vedere con Cucchi in quei giorni, a diverso titolo, fa salire il numero a ben oltre i tredici indagati dalla procura di Roma. La sua “odissea”, al contrario di tragedie analoghe come quella di Federico Aldrovandi, ad esempio, non si è esaurita in un unico episodio e cioè, fermo-botte-decesso. Cucchi è stato custodito per poco più di sei giorni dalle mani dello Stato, passando per fasi diverse, in un crescendo di tragedia che l’indagine della procura di Roma, nelle persone dei pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, ha spiegato in questo modo: Stefano è stato picchiato da tre agenti penitenziari nelle celle del Tribunale in attesa del processo. Poi, all’ospedale Pertini è stato “abbandonato” dai medici che non hanno fatto il necessario per salvarlo quando ormai era evidente che fosse in pericolo di vita. Tutta la vicenda, però, è costellata da uno straordinario numero di errori, casualità, coincidenze su cui un giallista, portato a mettere in relazione i fatti e cercando di ricostruire un quadro accettabile almeno da un punto di vista logico, avrebbe trovato materiale interessante di riflessione. Ci aiuteremo con un elenco di fatti emersi dalle carte dell’indagine, certamente incompleto ma sufficiente a fare emergere alcune domande.

-Al momento dell’arresto, il verbale dei carabinieri riporta erroneamente che Cucchi era senza fissa dimora e che non aveva un avvocato di fiducia. Eppure, nell’apposita casella il nome del legale di famiglia viene scritto con esattezza. Questo vuol dire che qualcuno, ai militari, doveva pur averlo detto. Inoltre, che fosse senza fissa dimora risultava anche nelle carte dell’udienza preliminare, ragion per cui al giovane, che era poco più che un incensurato e a cui erano stati trovati addosso pochi grammi di hashish, furono negati gli arresti domiciliari. Contro di lui c’era anche l’accusa di spaccio firmata in caserma da un suo amico che poi, davanti al pm, disse di essere stato costretto dai carabinieri a firmare quell’accusa.

-Stefano Cucchi, dopo l’arresto e dopo la perquisizione notturna nella casa dei genitori (pur essendo, nelle carte, senza fissa dimora) viene riportato in caserma in via del Calice intorno alle 2, come affermato dal maggiore Unali, responsabile della Compagnia Casilina. Nelle celle della caserma di via degli Armenti, dove passerà il resto della notte, giungerà alle 4: un tempo decisamente lungo per trovare il luogo di pernottamento (le celle di via del Calice erano inagibili), visto che in quelle ore i carabinieri non erano impegnati in altra attività perché Stefano era l’unico presente in caserma, oltre ai militari.

-Nella notte, in via degli Armenti, si sente male intorno alle 5. Viene chiamato il 118 ma lui non si fa visitare. Nella penombra della cella, però, l’infermiere Ponzo dichiara di aver intravisto “un’ecchimosi alla regione zigomatica destra”, non molto diversa da quella visibile ore dopo nella foto fatta alla matricola del carcere di Regina Coeli.

-Al momento dell’accompagnamento alle celle della caserma di via degli Armenti, il carabiniere Gianluca Colicchio nota alcuni arrossamenti sul viso di Stefano e, interrogato successivamente dai pm, raccontò che al momento dell’ispezione Stefano mostrò la sua cinta rotta. “Che mi devo togliere la cinta che m’hanno rotto?”, chiese al carabiniere. Il militare disse di non aver chiesto al ragazzo il motivo della rottura di quella cinta dei pantaloni.

-La mattina dopo Cucchi doveva essere trasferito in tribunale. Il carabiniere Francesco Di Sano della caserma di via degli Armenti dichiarava ai giudici che Cucchi lamentava dolori al costato e di non poter camminare, tanto che Di Sano lo aiutò a salire le scale (le celle si trovano in fondo ad una scalinata ripida). Perché non poteva salire le scale da solo? Cucchi aveva da poco compiuto 31 anni, era giovane e, nonostante la magrezza e l’uso di stupefacenti, frequentava una palestra dove si era recato proprio poche ore prima dell’arresto come, secondo la sua famiglia, sarebbe attestato da un badge con orario di entrata.

-Il carabiniere Pietro Schirone, che la mattina successiva, con un collega, aveva l’incarico di portare Cucchi all’udienza in tribunale, quando vide il ragazzo notò due ematomi evidenti intorno agli occhi, gli stessi che erano visibili al momento della foto segnalazione in carcere. Circostanza che il militare confermò ai pm. Schirone, giunto con Cucchi in tribunale, incontrò casualmente i suoi colleghi della caserma Appia (quelli che avevano arrestato poche ore prima Stefano) e chiese loro se si fossero resi conto delle condizioni del ragazzo.

-I militari della caserma Appia avevano appena accompagnato due giovani albanesi fermati il giorno prima che raccontarono agli inquirenti di aver parlato con Stefano nei pochi attimi prima del trasferimento nei sotterranei del tribunale. “Chi ti ha picchiato?”, gli chiesero dopo aver visto la sua difficoltà a reggersi in piedi. “I carabinieri ma non quelli che mi hanno portato qui”, rispose Stefano, specificando. Una testimonianza che però non venne considerata valida per l’indagine. Eppure la convergenza di diverse testimonianze, peraltro specifica come quella dei due albanesi, avrebbe meritato un approfondimento.

-Il momento delle eventuali percosse subite da Cucchi viene fatto risalire dalla perizia dei consulenti nominati dalla famiglia tra le 13 e le 14,05 del 16 ottobre. Quindi in tribunale (presumibilmente sotto le celle), subito dopo la sua permanenza in aula. Eppure, il padre di Stefano lo vide in udienza, intorno alle 12, lo abbracciò da vicino e notò un gonfiore anomalo sul volto. Alle 14 circa un medico lo visitò e certificò i segni sul viso e le difficoltà di deambulazione. Ma lui, invece, ha due vertebre rotte, L3 e quarta coccigea come riferito poi dall’ospedale Fatebenefratelli. Un detenuto del Gambia (unico testimone d’accusa), vicino di cella di Stefano al tribunale, dice al pm di aver sentito i rumori del pestaggio nei sotterranei di piazzale Clodio. Cucchi, però, potrebbe essere stato picchiato in due momenti differenti e i colpi ricevuti sul viso non necessariamente potrebbero essere contemporanei a quelli subiti alla schiena, ben più gravi per i quali occorse poi il ricovero d’urgenza.

-Il percorso kafkiano della vicenda di Stefano Cucchi si è incontrato col destino del dottor Rolando Degli Angioli, medico del Regina Coeli che visitò il ragazzo al momento del suo ingresso. Accortosi della gravità della situazione, dispose il ricovero per accertamenti alle 16, 45. Il ragazzo venne portato al Fatebenefratelli, vicino alcune centinaia di metri, circa tre ore dopo. Il medico si arrabbiò per quel ritardo. Pochi mesi dopo, al ritorno da un’aspettativa di lavoro, il dottor Degli Angioli non venne reintegrato. La commissione parlamentare presieduta dal senatore Ignazio Marino, che indagò sul caso Cucchi, dopo aver ascoltato il medico concluse che “era stato mobbizzato”. Lui inviò due lettere di raccomandata ricevuta ritorno per essere riammesso al lavoro. Non ebbe risposta. La versione della dirigenza sanitaria del carcere fu, invece, che dal termine dell’aspettativa, il 7 marzo 2010, il medico non si fece più sentire. La direzione sanitaria sottolineò di essere rammaricata del fatto perché il dottor Degli Angioli lavorava da sei anni nel carcere e si era fatto sempre apprezzare per aver risolto casi sanitari anche complicati. Il medico ha aperto una vertenza di lavoro con l’amministrazione del penitenziario.

-Il capitolo dell’ospedale Pertini è l’ultimo e i medici e gli infermieri, se le accuse della procura saranno confermate, non hanno scampo: Stefano Cucchi è stato abbandonato a sé stesso, le cure sono state inadeguate, fu sottovalutata la gravità della sua condizione clinica. Le loro responsabilità sono molteplici e iniziano quando il medico di turno, la dottoressa Rosa Caponnetti, secondo l’accusa, chiese un’autorizzazione specifica all’amministrazione penitenziaria per ricoverare Cucchi. In carcere le sue condizioni si erano aggravate e l’amministrazione del Regina Coeli aveva scelto quel reparto del Pertini, poco adatto per un paziente affetto da acuzie (anche i consulenti della procura stessa, nella loro relazione, presentarono forti critiche a questa scelta perché quel reparto era inidoneo e non attrezzato per le condizioni di Stefano). Al dirigente dell’amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi, anch’egli indagato, venne fatto firmare un documento palesemente falso in cui Stefano Cucchi veniva descritto in condizione generali “toniche e trofiche”, discretamente alimentato e senza le gravi patologie di cui soffriva (e che in precedenza erano state già certificate dal Fatebenefratelli). Marchiandi, fuori dell’orario d’ufficio (era sabato e pare che il dirigente si trovasse fuori Roma con i familiari) arrivò di corsa al Pertini e firmò (“un procedimento assolutamente fuori dall’ordinario – dirà una delle infermiere ascoltate in procura – in tanti anni di lavoro qui non avevo mai vista tanta urgenza”). I sanitari del Pertini che hanno ricevuto la richiesta di rinvio a giudizio sono nove. Ora, il dubbio è questo: si tratta di persone incensurate, madri e padri di famiglia ed è presumibile credere che fino ad allora fossero sempre stati cittadini rispettosi della legge. Che tutti insieme e contemporaneamente e nello stesso luogo abbiano deciso improvvisamente di delinquere senza pensare alle conseguenze, risulta veramente difficile da credere. Eppure è accaduto. Quel comportamento che si può definire, con un termine benevolo, “sciatteria professionale”, non può avere colpito come una sindrome nove professionisti che fino ad allora avevano lavorato, con tutta probabilità, in maniera regolare. A meno che non ci sia stata una direttiva. Un ordine da qualcosa o da qualcuno allo scopo di segregare lontano da occhi indiscreti Stefano le cui condizioni, piano piano, si stavano aggravando. Così si spiegherebbe la difficoltà di Stefano di vedere il suo avvocato, per cui faceva il diavolo a quattro, un diritto continuamente negato, rifiutando parte del cibo e delle cure, complicandosi così da solo una già complicata situazione clinica. Per non parlare della perizia disposta dalla procura ed effettuata dal professor Arbarello, che non mette in relazione i traumi subiti da Stefano e l’insorgenza di patologie come la bradicardia, una delle concause di morte. Una perizia, però, che non dà spiegazioni sui motivi che scatenarono il mortale scompenso metabolico di Stefano. Perché in sei giorni Stefano soffrì di questo insieme di patologie. Se non c’è un fattore scatenante (il pestaggio subito poche ore prima), allora la bradicardia, la cachessia, i problemi idroelettrolitici riscontrati dall’autopsia potevano colpirlo in qualsiasi momento. Anche in casa, per esempio. La perizia di parte civile, invece, individuò invece in una scheggia della vertebra L3 che pigiò in quei sei giorni sul sacco durale del midollo spinale del ragazzo, la causa della sua innaturale postura, della sua sofferenza e della sua morte. Ma quest’ipotesi non fu accolta dagli investigatori. Potremmo finire qui. Si potrebbero aggiungere altre “stranezze” come l’impossibilità per i periti di parte civile di fotografare, subito dopo la morte, il corpo martoriato di Stefano, ridotto ad una specie di alieno, e che soltanto il gesto caritatevole di qualcuno che quelle foto fece di “straforo” rese possibile quella terribile visione a tutti. Perché anche questo? Nessuna delle riflessioni fatte può rappresentare una prova di colpevolezza o assoluzione per nessuno ma i tasselli dell’indagine rischiano di disegnare un effetto patchwork se non si mettono in relazione i fatti accaduti e i motivi con un esercizio di logica. Alle tante domande di questa vicenda kafkiana, infatti, sembra mancare la parola “perché”.

GIANCARLO CASTELLI

11 commenti:

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  2. Ricostruzione precisa. Spero, spero davvero che in dibattimento si possa approfondire... dalle due alle quattro in via del Calice.. La cinta rotta. Il malore in via delgi Armenti. E poi la mattina e gli incontri: chi ti ha picchiato? I carabinieri, ma non quelli che mi hanno portato qui. Stefano lo dice ai due albanesi portati in direttissima. In mezzo ci sono le due ore in via del Calice. IL PM avrà avuto le sue buone ragioni per non ritenere valida questa testimonianza. Non si discute.. Però i fatti non quadrano.. Speriamo nel dibattimento e che sia pubblico. Con le telecamere.

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  3. http://ragnotattoo.blogspot.com/2010/11/stefano-cucchi.html

    per solidarietà e per rabbia

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  4. Cara Ilaria, sono un tuo concittadino di 45 anni indignato e addolorato per quanto successo a Stefano. Fin da subito ho capito quanto fosse terribile la vostra vicenda, e con il cuore ho sempre seguito la tua coraggiosa battaglia. Sono anche venuto il 22/10 scorso presso la tua parrocchia in occasione della commemorazione di Stefano, dove ho avuto l'occasione di leggere il tuo bellissimo libro e di vederti accanto a tua figlia, cosa che, in quel contesto, mi ha comunque dato un filo di speranza nel futuro. Visto che allora non mi e' sembrato opportuno avvicinarti e presentarmi, mi faccio avanti ora per offrire il mio supporto fattivo per qualsiasi tipo di attivita' che tu ritenga opportuna per ottenere giustizia. Sono padre di due bambine e lavoro come professionista per il Comune di Roma, mia moglie e' avvocato, e ho una buona esperienza in termini di sostegno e divulgazione di battaglie sociali. Con profondo rispetto e stima Pietro Campitelli
    pietro.campitelli@gmail.com

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  5. Carissima Ilaria ho avuto modo di scriverti una mia lettera attraverso il messaggero,sono Andrea CONFORTI,mi piacerebbe parlare con tè,il mio indirizzo di posta elettronica è il seguente,conforti66.andrea@libero.it,sò quello che succede nelle carcere perchè sono stato anchio detenuto,e sto scrivendo tanto e non finirò mai di scrivere,ti prego di contattarmi,ho avuto modo di spogliare sommariamente il tuo libro,resto in attesa di un tuo contatto,mi piacerebbe un giorno conoscerti.ciao Andrea

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  6. salve ilaria, mi chiamo gabriele e faccio parte del circolo arci "saperi e sapori" di aosta. Ci farebbe piacere ospitarla una serata per la presentazione del libro "Vorrei dirti che non eri solo". Se interessata mi può contattare alla seguente e-mail: gabriele.scattolin@gmail.com.
    Può trovare il circolo all'indirizzo www.espacepopulaire.it.
    Saluti.
    gabriele scattolin

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  7. Posso dirti solo che sono addolorata per quello ke è successo a tuo fratello...Sono ex tossicodipendente in cura presso il sert...E so bene ke questa condizione porta a non essere nulla per le istituzioni..anzi sei solo una rottura...qualcosa di marcio da emarginare..Io penso ke siamo solo persone che hanno sbagliato...Stefano adesso è in cielo con la mia mamma morta lo scorso anno di cancro...So che adesso è in pace...Ma capisco il dolore tuo e della tua famiglia..è qualcosa ke ti spezza il fiato...che ti mangia l'anima..
    Spero venga fatta giustizia...Un abbraccio

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  8. Salve Ilaria,

    Abbiamo messo il certificato di morte di Stefano Cucchi online: http://letteraapertacucchi.blogspot.com/2011/03/il-certificato-di-morte-di-stefano.html

    Io sono il marito di Flaminia Bruno, e so che lei ha fatto tutto che poteva per curare Stefano e per far uscire la vertita con la richiesta di autopsia e la mesa della salma a disposizione dell'Autorità Giudiziaria.

    Se qualcuno vuole nascondere quello che gli è successo in caserma o altrove, di certo non siamo noi.

    Daniel

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  9. Salve a tutti, avrei bisogno di un'informazione importante. Dovrei conttattare Ilaria Cucchi, per invitarla come ospite, ad un evento scolastico in provincia di Rieti.
    Grazie a tutti per l'attenzione

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  10. Salve a tutti, avrei bisogno di un'informazione importante. Dovrei conttattare Ilaria Cucchi, per invitarla come ospite, ad un evento scolastico in provincia di Rieti.
    Grazie a tutti per l'attenzione

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  11. Non ci conosciamo, e so che il mio esservi vicino con il cuore vuol dire poco o niente, in confronto a quello che è stato fatto a Stefano e quello che avete patito e che patirete. Ma voglio dirvelo lo stesso. La vostra lotta non è solo per Stefano, ma per tutti quelli che hanno subito o stanno subendo lo stesso martirio

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